IL GATTO DELLA TELEVISIONE
TERZA PUNTATA
di Claudio Montini
Ora
che non ha più importanza, mi sembra quasi ridicolo aver sentito un
brivido di paura lungo la schiena: da un mese quella parte di me
rimaneva per onor di firma ma era in silenzio stampa!
Ero
già in coma e non me ne ero accorto? Erano i preamboli delle
allucinazioni da mancata ossigenazione dei tessuti cerebrali?
Insomma, ero morto e suor Agonia non mi aveva detto niente?
Accidenti
a tutti i preti e alle suore del mondo, ho sempre diffidato di loro:
sin da quando ho sepolto mia madre e sono stato messo in quel
camerone con altri disgraziati come me; per non dire della volta che
misero i miei quattro stracci in una valigia di cartone legata con lo
spago e ci caricarono su una nave che si fermò in America dove ci
sarebbero stati una nuova mamma e un nuovo papà, ma non ci dissero
che parlavano straniero e che saremmo stati il bersaglio preferito
dei beceri che si credevano i padroni solo perchè erano arrivati
prima di noi.
Anche
se mi trattarono come se fossi carne della loro carne, io lasciai
sempre una certa distanza tra noi: forse è questo il mio peccato più
grande; però piansi quando mi spedirono in licenza poco prima
dell'imbarco per il mio primo incarico di comando e arrivai appena in
tempo per vederli spegnersi a due ore l'uno dall'altra in due stanze
diverse ma attigue: era il paradigma delle nostre vite, fare finta
che stiamo bene e ogni cosa procede secondo programma anche se i
sintomi del malessere sono evidenti, continuando a esistere in spazi
contigui.
I
nonni acquisiti e la carriera furono rimedi palliativi che mi
anestetizzarono fino a che non mi ritrovai di nuovo solo, a un bivio
senza indicazioni e senza punti di riferimento sul terreno fino
all'orizzonte: allora la parte italiana del mio sangue reclamò le
sue prerogative.
Italiani,
popolo di santi e navigatori: con cosa si orientavano gli
attraversatori di oceani senza satelliti o previsioni meteo o carte
nautiche? Guardavano alle stelle e, allora, era giunto il momento
anche per me di andare a vedere se davvero fossero piantate come
chiodi luminosi nel tappeto scuro della notte: il mare e l'aria non
avevano più segreti per me, ora volevo lo spazio interstellare.
Il
programma Apollo era finito nell'indifferenza generale anche a causa
della sconfitta e della fuga precipitosa da Saigon, dei boat people,
dei prigionieri di guerra dimenticati nella boscaglia asiatica: i
finti "civili" o "privati" avevano compiuto la
propria parabola, si erano riempiti le tasche regalando al mondo
intero nuovi giocattoli con cui drogare le coscienze, oltre a
scatenare nuovi mostri, ma allora la partita tornava a giocarsi sulla
terra e il pallino tornava in mano ai militari.
«Se
la proiezione della tua vita è ai titoli di coda, tira giù la
bobina, mettiti comodo e lascia perdere il campanello che oggi ci
sono qua io ad occuparmi di te! Oggi musica, altro che prediche!»
Il
gatto aveva preso in mano la situazione e il telecomando, accendendo
la televisione e artigliando la manica del pigiama per distogliermi
dai miei pensieri e rivolgere la maggiore attenzione possibile al suo
spettacolo: come potevo oppormi se non avrei avuto nemmeno la forza
di versarmi un bicchiere di succo d'arancia ghiacciato che miss
Catetere portava tutti i giorni prima del cambio turno insieme alle
pillole del pomeriggio?
Il
cablaggio della base consentiva di avere a disposizione cinque canali
dedicati all'intrattenimento: una sorta di televisione via cavo che
trasmetteva, anche a richiesta purchè il materiale fosse presente e
autorizzato nell'archivio centrale, sull'intero arco delle
ventiquattro ore in ogni apparecchio installato nelle stanze e nelle
parti comuni, come corridoi, sale di lettura, bar o mense o zone
ricreative; l'idea era di non fare sentire nessuno degli "ospiti",
volontari e non, recluso o peggio escluso dal resto del mondo: mi
sembrava di essere stato catapultato in una puntata di "The
Twilight Zone", con un gatto che cominciava a ballare a ritmo di
shuffle imitando quello a cartoni animati protagonista della sigla
d'apertura di un hit parade show, stando alle poche parole che
riusciva ad afferrare tra un miagolio di soddisfazione e l'altro, di
produzione italiana.
Miccium
non si perdeva una mossa del collega sulla schermo e pareva volesse
buttarsi dentro lo schermo per fare un passo a due; sapeva tutte le
parole, pause comprese, della canzoncina che parlava di gatto
ascoltatore e giudice di musica e televisione tanto da concedersi
come premio per cantanti e divi del piccolo schermo: per forza, non
avendo in Italia nè Hollywood nè l'Academy, poteva mancare qualcuno
che s'inventasse un'Oscar per quell'aggeggio che regalava a tutti
almeno un quarto d'ora di celebrità?
Quando
una sfera rotante ricoperta di minuscoli specchi, come quella delle
discoteche che volevano imitare lo Studio 54, su cui comparivano un
paio d'occhi azzurri e una bocca ben disegnata che si apriva e si
chiudeva al ritmo della scaletta del programma, venne in primo piano,
il gatto riprese il suo autocontrollo e mi guardò.
«Goditi
lo show, amico, e lascia perdere la penombra e il crepuscolo: io e te
siamo già oltre i confini della realtà...più di quanto tu possa
immaginare e capire adesso. E' tutta musica dei tuoi tempi.»
«Scherzi?
Nello stato in cui sono, mi aspettavo che venisse a domandare quale
fosse il mio ultimo desiderio...» «Ti
sembra che sto ridendo?» mi interruppe bruscamente e si voltò verso
la televisione fino al termine dello spettacolo.
- continua -
(c) 2016 testo inedito di Claudio Montini da un'idea di Silvio Curti
(c) 2016 immagine di Orazio Nullo "Television cat show"
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