IL GATTO DELLA TELEVISIONE
SECONDA PUNTATA
di Claudio Montini
Lo
sguardo radiografico del felino mi stava mettendo a disagio e allora
richiusi anche quest'altra finestra sull'anima per non farmela
rubare, convinto com'ero che fosse un incubo farmacologico, oppure
perchè temevo che Belzebù in persona fosse venuto a prendermi:
evidentemente i miei antenati già transitati dalle grandi praterie
del cielo avevano di meglio da fare...No, no, no: quella era soltanto
una vecchia leggenda che i nonni ripetevano il giorno di Ognissanti
quando andavamo al cimitero cattolico di Brooklym e poi al La Guardia
a vedere decollare i Boeing che sognavo di pilotare; mi ero fatto
tutta una mia tabella di marcia: quegli enormi albatros di metallo
erano la tappa intermedia verso le stelle perchè da grande sarei
stato davanti alla consolle di una navicella spaziale, come quelle
che si vedevano già nei telefilm di fantascienza sulla CBS.
Fortuna
che la porta era socchiusa e quindi non venne, come al solito,
abbattuta dall'imponente sposa di Cristo ma spalancata con relativo
spostamento d'aria tale da chiudere la rivista che avevo lasciato sul
tavolo telescopico, quello per i pazienti allettati come me; speravo
che la folata cattolica avesse dissipato anche il fantasma di
Miccium, il gatto che Tom tanto bene aveva descritto in quella che
sarebbe stata la sua ultima notte da sembrare pure a me di vederlo
gironzolare per la stanza e addormentarsi sul suo letto accanto alla
montagnola dei piedi: suor Maria Betania non amava i gatti ma almeno
li rispettava, forse perchè aveva letto un'articolo sul New England
Journal of Medicine riguardo ad Oscar, il micio comparso in una
corsia di un ospedale del Rhode Island che andava a fare visita ai
pazienti prossimi all'ultimo lancio.
Se
questo non fosse stato un nosocomio militare, non sarebbe stato una
così brutta cosa avere una simile mascotte: avrebbe semplificato il
lavoro dei cappellani della base o forse sarebbe stata soltanto
l'ennesima cavia in una gabbia da laboratorio di ricerca incastonata
tra le insenature della costa del Maine, sufficientemente lontana da
occhi e orecchie indiscreti come il cosmodromo in cui imparammo ad
andare e tornare dalla faccia nascosta della Luna.
«Qual
buon vento di redenzione la porta, sorella Betania, da questa
pecorella smarrita prossima al rendez-vous con il suo creatore?»
«La
mia fama mi precede sempre...Lo so che mi chiamate sorella Agonia,
tra di voi senza tonaca, senza vergogna nè timor di Dio: il velo e
il voto di castità, la promessa fatta a Cristo, non ci rende mica
sorde o ingenue e sprovvedute.»
Per
la prima volta la vidi sorridere: fu il lampo di un istante di
umanità, forse, o la momentanea sospensione della rassegnazione alla
fine cui ero destinato; quando ancora ero in grado di reggermi sulle
gambe, l'avevo sorpresa più d'una volta nella cappella cattolica a
pregare singhiozzando per chiunque fosse terminato sul tavolo
dell'obitorio prima di essere spedito ad Arlington o dove la famiglia
avesse chiesto che riposasse, ammesso e non concesso che il
malcapitato ne avesse una che ne reclamasse la salma, per piangerselo
in santa pace lasciando la bandiera e le medaglie in fondo al più
remoto cassetto del comò in camera da letto.
Tra
i tanti che avevo corso in vita mia, quello mi era stato risparmiato:
ero orfano di madre nubile come il protagonista di una struggente
ballata di un musicista italiano che ascoltai quando ero di stanza a
Napoli, per le selezioni di aspiranti astronauti militari; Tom aveva
stabilito che dovevamo andare in pensione e addestrare una nuova
squadra, lui era il comandante del programma, lui sapeva cosa ci
sarebbe toccato in sorte ma non lo disse a nessuno: non lo biasimo,
avrei fatto la stessa cosa.
«Tuttavia,
questa volta non sono stata anticipata dalla mia nomea...Ah, ci sei
anche tu? Era già tutto previsto, dunque...sia fatta la sua
volontà.»
Lasciò
il telecomando del televisore sul letto, a portata di mano, ma non
diede evasione alcuna alla mia espressione da punto interrogativo
disegnato in faccia, poichè eseguì un repentino dietrofront e
scomparve dietro la porta senza fare rumore; indipendentemente dalla
mia volontà, la testa si girò dalla parte opposta e i miei occhi
inquadrarono, di nuovo, la causa scatenante della fuga di sorella
Agonia: il gatto dal pelo scuro, quasi nero, con una grossa stella
bianca sul petto e una più piccola che dal centro della fronte
scendeva fino alla punta del naso, dando l'impressione che avesse una
mascherina da Zorro sugli occhi, era esattamente dove lo avevo
lasciato come se fosse una statua di sale, eccezion fatta per la coda
che ora ondeggiava con voluttuosa soddisfazione, forse, per aver
costretto alla precipitosa ritirata la sgranatrice di rosario.
- continua -
(c) 2016 testo inedito di Claudio Montini da un'idea di Silvio Curti
(c) 2016 immagine di Orazio Nullo "Television cat show"
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