mercoledì 16 settembre 2015

Video+novella: Pavia vista da un..."Davanzale di città" (Briciole di sogni nello sguardo, 2013)

DAVANZALE DI CITTA'               di Claudio Montini 



Basilico, rosmarino e salvia si facevano buona compagnia sul davanzale della finestra che dava luce e aria alla minuscola cucina dell'appartamento di nonna Maria.
I tre vasi di terracotta erano trattenuti, all'esterno, da una ringhiera di metallo solidale col muro e, dall'interno, da un robusto spago per pacchi che li legava uno all'altro; la mamma confermò che nemmeno i bombardamenti degli americani, in tempo di guerra, li avevano mai spostati di un millimetro.
Qualche volta, in estate, metteva anche un vaso col prezzemolo sul piano di marmo che completava il mobile col lavello e nascondeva, sotto di sè celato da ante di legno bianco, il contatore del gas in compagnia di stracci per la polvere e detersivi vari.
Quel piano era anche il posto deputato a far raffreddare le torte: capitava che le crostate facessero a gara con gli afrori delle pianticelle nello spandersi per tutta la casa.
Li teneva e ci teneva ad averli, quei vasi di piante aromatiche, sostituendoli se cedevano alle ingiurie del tempo, non tanto perchè le fossero indispensabili nel cucinare quanto perchè le ricordavano, con gli aromi che sprigionavano ogni qual volta che apriva la finestra, quelle che erano le sue radici, la sua campagna sotto San Fedele a Sommo, la corte della cascina che aveva lasciato due volte per andare a Pavia, da ragazza per lavorare in fabbrica alla Viscosa e da donna sposata a un dipendente delle Poste e Telegrafi.
In quella scatola di cemento e mattoni, dalla pianta semplicissima, con una finestra per ogni vano, appollaiata al terzo e ultimo piano con altre tre nell'angolo a sud-ovest del quadrilatero, sorto al di là del Naviglio Pavese agli esordi degli anni Trenta del ventesimo secolo per ordine e conto dell'Istituto Autonomo Case Popolari, io confesso di averci trascorso le migliori ferie della mia vita.
Trascorrere anche una settimana a Pavia dalla nonna Maria, appena finita la scuola, era più di un regalo di compleanno: era un'appuntamento inderogabile.
Mi piaceva la città e mi affascinava per la miriade di cose che conteneva: tante, frenetiche, a portata di mano e di piede, fruibili anche in pieno anonimato.
Ogni crocicchio coi suoi semafori, spettatori e arbitiri delle contese tra automobili impazienti e pedoni ansiosi di riguadagnare i marciapiedi; le strade ciottolate, lastricate, asfaltate e pitturate con righe e corsie e strisce pedonali calpestate da migliaia di ruote e piedi veloci che si ignorano, quando non si detestano e si mandano a quel paese, convinti di aver sempre più fretta degli altri; gli autobus che caricano e scaricano persone senza sosta; le numerose vetrine dei negozi appiccicati gli uni agli altri, separati solo da portoni di palazzi ornati da bottoniere infinite e targhe lucide d'ottone; le edicole dei giornalai foderate di ogni quotidiano e riviste dai mille colori, due grandi magazzini quattro cinema in centro storico, dove si incrociavano ad angolo retto i due corsi principali: erano prodigi incredibili e segni del progresso per un ragazzino che cresceva in un paese di campagna.
Da noi, al paese, arrivavano solo echi smorzati di questo stromabazzato nuovo che avanza tanto che, quando la televisione ci ammanniva una nuova pubblicità o una nuova moda, concludevamo: "Figurati se, a Pavia, non lo troviamo!
La fine del ventesimo secolo e l'inizio del terzo millennio, insieme alla lenta maturazione verso la vecchiaia e altri accidenti, quali matrimoni e separazioni e figli, ha ridimensionato quel fascino che ha ammaliato me e la mia generazione.
Tutti insieme, poi, hanno ucciso quell'emozionante illusione di andare alle porte del cosmo, là dove si poteva trovare risposta ad ogni necessità, che scaturiva in cuore ogni volta che dalla statale dei Cairoli, scendendo a San Martino Siccomario, buttavamo uno sguardo all'orizzonte in direzione nord-est.
Da aprile a settembre, puntuale, il profilo di Pavia col tamburo e la cupola del Duomo ci riempiva gli occhi sparendo dietro i pioppeti, una grande cascina, la massicciata della ferrovia per non riapparire che all'imbocco del Ponte dell'Impero, giusto prima di scavalcare il Ticino.
Lei è sempre rimasta altare e indifferente alle nostre vite; abbiamo girato l'Italia e l'Europa, il resto del mondo ce lo siamo trovato clandestino in casa, abbiamo accompagnato nonne e nonni verso la dimora del riposo eterno, qualcuno anche uno dei genitori o tutti e due.
Abbiamo fatto tutti la nostra strada e quello che abbiamo ce lo siamo guadagnato, tanto il bello quanto il brutto; in città ci andiamo solo perchè le scuole alte dei figli sono ancora tutte lì; il nuovo che ha smesso di avanzare, o lo fa tanto lentamente da sembrare fermo, io e i miei coetanei lo cerchiamo altrove: ho scollinato da un lustro i quaranta e la discesa, inconsapevolmente, l'ho già cominciata.
Ciò di cui sento pesantemente la mancanza non è l'esuberanza incoscente della gioventù, cui supplisco con l'esperienza, ma la speranza di costruire un mondo migliore, senza pentimenti o rimorsi.
Una piccola porzione di spazio e di tempo dove ritrovare l'aroma del caffè appena salito nella moka, il rustico afrore di una crostata di mele che si riposa e si raffedda accanto a una finestra vegliata da basilico, rosmarino e salvia, a dimora sul davanzale in un vecchio appartamento di città.
Il tempo passa e la morte se ne viene, beati quelli che hanno fatto del bene.



(c) 2015 Video Orazio Nullo 
                      "Guardanda la me bela Pavia"
(c) 2013 Testo Claudio Montini 
        da "Briciole di sogni nello sguardo" 
       edited in selfpublishing with youcanprint.it
(c) 2013 Foto Orazio Nullo 

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