DAVANZALE DI CITTA' di Claudio Montini
Basilico,
rosmarino e salvia si facevano buona compagnia sul davanzale della
finestra che dava luce e aria alla minuscola cucina dell'appartamento
di nonna Maria.
I
tre vasi di terracotta erano trattenuti, all'esterno, da una
ringhiera di metallo solidale col muro e, dall'interno, da un robusto
spago per pacchi che li legava uno all'altro; la mamma confermò che
nemmeno i bombardamenti degli americani, in tempo di guerra, li
avevano mai spostati di un millimetro.
Qualche
volta, in estate, metteva anche un vaso col prezzemolo sul piano di
marmo che completava il mobile col lavello e nascondeva, sotto di sè
celato da ante di legno bianco, il contatore del gas in compagnia di
stracci per la polvere e detersivi vari.
Quel
piano era anche il posto deputato a far raffreddare le torte:
capitava che le crostate facessero a gara con gli afrori delle
pianticelle nello spandersi per tutta la casa.
Li
teneva e ci teneva ad averli, quei vasi di piante aromatiche,
sostituendoli se cedevano alle ingiurie del tempo, non tanto perchè
le fossero indispensabili nel cucinare quanto perchè le ricordavano,
con gli aromi che sprigionavano ogni qual volta che apriva la
finestra, quelle che erano le sue radici, la sua campagna sotto San
Fedele a Sommo, la corte della cascina che aveva lasciato due volte
per andare a Pavia, da ragazza per lavorare in fabbrica alla Viscosa
e da donna sposata a un dipendente delle Poste e Telegrafi.
In
quella scatola di cemento e mattoni, dalla pianta semplicissima, con
una finestra per ogni vano, appollaiata al terzo e ultimo piano con
altre tre nell'angolo a sud-ovest del quadrilatero, sorto al di là
del Naviglio Pavese agli esordi degli anni Trenta del ventesimo
secolo per ordine e conto dell'Istituto Autonomo Case Popolari, io
confesso di averci trascorso le migliori ferie della mia vita.
Trascorrere
anche una settimana a Pavia dalla nonna Maria, appena finita la
scuola, era più di un regalo di compleanno: era un'appuntamento
inderogabile.
Mi
piaceva la città e mi affascinava per la miriade di cose che
conteneva: tante, frenetiche, a portata di mano e di piede, fruibili
anche in pieno anonimato.
Ogni
crocicchio coi suoi semafori, spettatori e arbitiri delle contese tra
automobili impazienti e pedoni ansiosi di riguadagnare i marciapiedi;
le strade ciottolate, lastricate, asfaltate e pitturate con righe e
corsie e strisce pedonali calpestate da migliaia di ruote e piedi
veloci che si ignorano, quando non si detestano e si mandano a quel
paese, convinti di aver sempre più fretta degli altri; gli autobus
che caricano e scaricano persone senza sosta; le numerose vetrine
dei negozi appiccicati gli uni agli altri, separati solo da portoni
di palazzi ornati da bottoniere infinite e targhe lucide d'ottone;
le edicole dei giornalai foderate di ogni quotidiano e riviste dai
mille colori, due grandi magazzini quattro cinema in centro storico,
dove si incrociavano ad angolo retto i due corsi principali: erano
prodigi incredibili e segni del progresso per un ragazzino che
cresceva in un paese di campagna.
Da
noi, al paese, arrivavano solo echi smorzati di questo stromabazzato
nuovo che avanza tanto che, quando la televisione ci ammanniva
una nuova pubblicità o una nuova moda, concludevamo: "Figurati se, a Pavia, non lo troviamo!"
La
fine del ventesimo secolo e l'inizio del terzo millennio, insieme
alla lenta maturazione verso la vecchiaia e altri accidenti, quali
matrimoni e separazioni e figli, ha ridimensionato quel fascino che
ha ammaliato me e la mia generazione.
Tutti
insieme, poi, hanno ucciso quell'emozionante illusione di andare alle
porte del cosmo, là dove si poteva trovare risposta ad ogni
necessità, che scaturiva in cuore ogni volta che dalla statale dei
Cairoli, scendendo a San Martino Siccomario, buttavamo uno sguardo
all'orizzonte in direzione nord-est.
Da
aprile a settembre, puntuale, il profilo di Pavia col tamburo e la
cupola del Duomo ci riempiva gli occhi sparendo dietro i pioppeti,
una grande cascina, la massicciata della ferrovia per non riapparire
che all'imbocco del Ponte dell'Impero, giusto prima di scavalcare il
Ticino.
Lei
è sempre rimasta altare e indifferente alle nostre vite; abbiamo
girato l'Italia e l'Europa, il resto del mondo ce lo siamo trovato
clandestino in casa, abbiamo accompagnato nonne e nonni verso la
dimora del riposo eterno, qualcuno anche uno dei genitori o tutti e
due.
Abbiamo
fatto tutti la nostra strada e quello che abbiamo ce lo siamo
guadagnato, tanto il bello quanto il brutto; in città ci andiamo solo
perchè le scuole alte dei figli sono ancora tutte lì; il nuovo che
ha smesso di avanzare, o lo fa tanto lentamente da sembrare fermo, io
e i miei coetanei lo cerchiamo altrove: ho
scollinato da un lustro i quaranta e la discesa, inconsapevolmente,
l'ho già cominciata.
Ciò
di cui sento pesantemente la mancanza non è l'esuberanza incoscente
della gioventù, cui supplisco con l'esperienza, ma la speranza di
costruire un mondo migliore, senza pentimenti o rimorsi.
Una
piccola porzione di spazio e di tempo dove ritrovare l'aroma del
caffè appena salito nella moka, il rustico afrore di una crostata di
mele che si riposa e si raffedda accanto a una finestra vegliata da
basilico, rosmarino e salvia, a dimora sul davanzale in un vecchio
appartamento di città.
Il
tempo passa e la morte se ne viene, beati quelli che hanno fatto del
bene.
(c) 2015 Video Orazio Nullo
"Guardanda la me bela Pavia"
"Guardanda la me bela Pavia"
(c) 2013 Testo Claudio Montini
da "Briciole di sogni nello sguardo"
da "Briciole di sogni nello sguardo"
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(c) 2013 Foto Orazio Nullo
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