giovedì 30 agosto 2018

Dalla cambusa di Zio Propano: rosso, antico e vegetariano!

IL SUGO MEGANO
di Zio Propano

Gli artisti, anche i presunti tali come il sottoscritto, sono inguaribili superstiziosi e coltivano piccoli riti propiziatori che alcuni chiamano manie e altri abitudini; io, per esempio, preferisco fare la spesa per rifornire la cambusa il venerdì, giusto per tenermi il sabato libero per altre incombenze o per lo svago. Capita, a volte, di acquistare prodotti che vicini di casa appassionati orticoltori, poi, ti regalino, non tanto per fare sfoggio della propria abilità quanto per liberarsi di un'eccesso di produzione: ho avuto anche io l'orto ed è entusiasmante vedere l'esuberanza dei frutti delle attenzioni e della fatica dedicate a quelle piantine da pochi spiccioli acquistate al mercato, così come è imbarazzante non sapere come trasformarli in alimenti di lunga durata e risolversi a gettarli nella pattumiera o nella compostiera. Non si può, tanto per dire, mangiare tutti i giorni pomodori o zucchine oppure riempire bancali interi di vasetti di salsa e conserve e confetture: a conti fatti, tra materiale ed energia e materia prima, il gioco non vale la candela per tacere di ciò che rimane sepolto nel congelatore... Insomma, i pomodori li avevo già presi al supermercato e, un paio di giorni dopo, un'amica alla quale confido i miei pasticci ai fornelli (prima di trascriverli, giusto per avere un parere terzo...) mi ha portato una borsa contenente notevoli esemplari di sua produzione, accompagnati da un paio di rametti di basilico dal momento che a casa mia esso si rifiuta di mettere radici (per anni, la Jena Sabauda ed io lo abbiamo preso, piantato pensando di farci un casalingo pesto alla genovese e puntualmente abbiamo viste frustrate le nostre aspettative: l'anticoagulante orale che assume dopo l'intervento al cuore ci ha fatto desistere). Li ho messi a riposo in frigorifero e la sera, quasi alle soglie della notte, non riuscendo a risolvermi a portare lo scheletro e il resto della cospicua polpa nel letto ad attendere la nuova alba, mi sono messo a pasticciare con questi ingredienti:
  • 4 pomodori costoluti grandi (quelli che mi avevano regalato: ma potete usare anche quelli oblunghi, almeno otto, o tondi; coi ciliegini ce ne vogliono troppi: scappa la voglia...)
  • 1 cipolla dorata
  • 1 gamba di sedano (bianco o verde è uguale, ma io preferisco quello verde)
  • 1 carota
  • 1 spicchio d'aglio
  • 6 cucchiai da tavola di olio extravergine di oliva
  • 1 cucchiaio da tavola scarso di sale grosso da cucina
Riducete a cubetti o a pezzi grossolani i pomodori e sminuzzateli col tritatutto, o col mixer a lame o col passaverdura a manovella (se non vi fa difetto fare sfoggio di forza fisica) raccogliendo in una ciotola il fluido denso che ne deriva. Ripetete la stessa operazione con sedano, cipolla, carota e aglio per ottenere una sorta di pasta da unire al fluido rosso, mescolando come se fosse quello di una torta, giusto qualche minuto; spargete a pioggia il cucchiaio scarso di sale grosso e seguitate a mescolare fino a che vi sembrerà sparito. Versate il contenuto della ciotola in una pentola col fondo bagnato da due cucchiai da tavola di olio extravergine di oliva che abbia appena iniziato a scaldarsi, grazie al fuoco più piccolo del fornello tenuto a fiamma media, o meglio ancora, bassa. Date un paio di giri con il cucchiaio di legno al rosso amalgama, mettete il coperchio e lasciatelo in pace a sobbollire dai 30 ai 45 minuti; in pace, per modo di dire: tormentatelo solo un'altro paio di volte col cucchiaio di legno soltanto per evitare che bruci attaccandosi alle pareti o al fondo della pentola. Trascorsi quei minuti, spegnete il gas e lasciate che perda naturalmente il calore accumulato: voi avete altro da fare, cioè recuperare due (o più) vasetti di vetro con tappo a vite (sì, proprio come quelli della nota azienda emiliana, di vetrai in Parma dal millenovecento e zufola!); in ciascuno, già risciacquato e e asciugato, versate due cucchiai da tavola di olio extravergine di oliva e poi riempiteli col sugo megano (diciamo oltre il 90%) ancora tiepido, ricoprite con altri due cucchiai da tavola di olio e serrate bene il tappo a vite. Se ben lasciate scorrere un'ora tra le due operazioni (ricerca e riempimento vasetti) non c'è nulla di male, anzi: eviterete danni ai vostri polpastrelli, ai vasetti, ai loro tappi e al frigorifero (o alla dispensa). Infatti, vanno lasciate raffreddare completamente all'aria poggiati su un tagliere di legno o su una graticola, altrimenti a bagno nel lavello di cucina con acqua fresca di rubinetto: si sigilleranno da soli...provare per credere! Qualora foste sprovvisti dei vasetti di cui sopra, potete ricorrere ad altri recipienti purché siano di vetro ed ermeticamente richiudibili: in frigorifero un posto si trova sempre, anche nel congelatore; ma se avete messo a scaldare la pastaiola con l'acqua salata...beh, buttate la pasta che il sugo megano, condimento rosso antico vegetariano di base, è già pronto e caldo: ad arricchirlo ci penserà la vostra fantasia perchè, dai funghi al pesce e dal maiale al manzo o ai tesori dell'ortolano, esso abbraccerà tutti e a nessuno farà torto.

© 2018 Testo e ricetta di Claudio Montini
© 2018 Immagine di Orazio Nullo

venerdì 24 agosto 2018

Un gustoso e curioso rimedio all'insonnia

La forchetta al centro del piatto
di Claudio Montini

Si rese conto di soffrire di insonnia, quando provò piacere nell'attardarsi in cucina a preparare un sugo al pomodoro da conservare sotto vetro. Quanto era dolce ridurre a bocconi grossolani quei grossi e succosi ortaggi, rossi più della brace di rovere buona per il camino e per la stufa d'inverno, gonfi e tesi e pieni di sè e di polpa e succo vermiglio e acqua tanto quanto certi gaglioffi che si divertivano a fare i forti con deboli malcapitati, salvo poi finire puntualmente crivellati o maciullati o disciolti dal piombo o dall'esplosivo o dall'acido di coloro i quali erano superiori a loro per grado o per potere o per maggior e carenza di scrupoli. Era una vendetta virtuale, nemmeno una nemesi seppure tardiva per sua natura stessa, un 'ingenuo inganno alla coscienza ferita, all'orgoglio leso, alla dignità quotidianamente calpestata non solo sua ma comune a tutta l'umanità che pativa la mancanza di giustizia, di uguaglianza, di rispetto: sminuzzare a filo di coltello in una ciotola l'attore o, persino, l'autore del male patito per mescolarlo a essenze o aromi  o materie ritenuti salutari, benefici, lenitivi o ammendanti scaldando quel magma a fuoco medio e senza fretta ma in modo costante e prolungato, come un bradisismo flegreo o il vulcanismo minore della solfatare etnee, affinché esso si liberasse della maggior parte del suo umore acqueo, sembrava essere il solo espediente in grado recare pace e benessere ai suoi nervi tesi, sfibrati, sfiniti da ansie e timori e paure circa i giorni e i mesi e gli anni che gli sarebbe ancora toccato di vivere in quella valle di lacrime. Il vetro pulito e trasparente, il sigillo del tappo a vite in alluminio colorato d'ottone, era una eccellente prigione per quella miscela di vita e di estate che avrebbe nobilitato un'altra generosa e gustosa invenzione dei figli della terra che, imitando il proprio creatore, avevano impastato elementi diversi del creato per sostenere la vita della specie che si era arrogata il diritto e il dovere di esserne il custode, salvo scordarsi dei propri compiti quando lasciavano briglia sciolta alla cupidigia e altri bassi istinti. A mezzanotte era spirato il vecchio giorno, si era accomodato senza dire nulla nel passato, mentre il nuovo non dava segni di vita degni di nota se non gli scatti delle lancette degli orologi; non entrava un brusio di veicoli o di foglie, non un vociare di ubriachi o di ragazzi ebbri di libertà incosciente, non una sirena che rincorresse moribondi o malviventi, non un cane che abbaiasse alle ombre che scivolavano sui sospiri o sui rantoli delle case e dei cortili spenti dal sonno e dalla paura del buio; sollevò il coperchio alla caldera del suo piccolo vulcano domestico, si riempì narici e polmoni del profumo che gonfiava e lacerava l'incerta superficie rustica e rossa, quindi stabilì che poteva bastare così, sì, proprio come il cucchiaio di legno suggeriva ostentando la resistenza della densa massa che fendeva e ribaltava: sbarrò gradualmente la strada al gas che abbassò la sua cresta blu fino ad estinguersi, era giunto il tempo del riposo e della perdita del calore, l'attesa di una sorta di rigor mortis necessario all'ultima fase del rimedio all'insonnia conclamata. Si sbarazzò degli strumenti ormai inutili, pulendoli e sciacquandoli e riponendoli con metodo scientifico nel colatoio delle stoviglie sopra il lavello della cucina avendo, tuttavia cura di conservarsi acqua e detersivo sufficienti per quelle poche stoviglie ancora impegnate. La fresca brezza della notte fonda compì sino in fondo il suo dovere, la pentola si poteva manovrare a mani nude, i vasetti non avrebbero sofferto troppo l'esuberanza termica del loro ospite, complici un paio di cucchiai d'olio d'oliva fatti scorrere con abile gioco di polso sulle loro pareti interne; sfiorò dunque l'orlo di ciascuno, pareggiando il livello con altro olio e serrando sino in fondo la porta metallica della prigione trasparente: li lasciò allineati sul tagliere bruno di rovere o di noce (o di chissà quale altro tronco d'albero a lui ignoto e privo della benché minima importanza) sino al mattino che attese, finalmente esausto e soddisfatto, per poche ore nel suo letto russando allegramente solo dopo aver rigovernato l'ultima stoviglia e fatto sparire le prove del suo passaggio in cucina. Soltanto a mezzogiorno, con la forchetta al centro del piatto, si sarebbe udita l'ardua sentenza.   
© 2018 Testo di Claudio Montini
© 2014 Immagine di Orazio Nullo

giovedì 16 agosto 2018

Genova per me, che sto in fondo alla campagna...

Genova, dicevo, a reti unificate...
di Claudio Montini

Le reazioni isteriche sono inutili e controproducenti in ogni frangente della vita; talvolta potrebbero essere comprensibili, sul piano umano: ma non sono ammissibili su quello dirigenziale, amministrativo, governativo. I morti non tornano in vita, il vuoto che essi lasciano nelle vite di coloro che li hanno amati, attesi, cercati e, purtroppo, riconosciuti in una asettica sala d'ospedale non sarà mai riempito da nessuna carriola di denari o di rimborsi; nemmeno la promessa di potenziare gli organici di quegli eroi con l'elmetto e gli stivali e la divisa verde che, anche a mani nude e a rischi della propria incolumità, lottano (sì, signore e signori, essi lottano: non lavorano soltanto) a favore della vita altrui affinchè non sia in pericolo nemmeno per incuria, errore, colpevole o colposa distrazione o cupidigia o fretta, potrà ripagarli dell'orrore e della paura e della pena che provano nel cercare brandelli di vite spezzate o ragioni di disastri, troppo spesso, annunciati. Il governo dei triumviri del nuovo che avanza (non nel senso primario di un moto di progresso, bensì in quello di fondo raschiato del barile già rancido) hanno dimostrato con le continue e petulanti e stucchevoli manifestazioni di rappresaglie contro i gestori della rete autostradale di essere giganti, non già dai piedi d'argilla, ma di marmellata malriuscita: sono, a mio avviso, stati in grado di superare, in una corsa al ribasso superiore solo alla discesa del titolo azionario Atlantia nella Borsa di Milano, il livello di sbruffonate e scempiaggini messe insieme nell'ultimo quarto di secolo dalle bande di scriteriati laureati guidati dal satrapo priapista di Arcore, prima, e dal Burlone Gigliato fiorentino, poi (Gentiloni, nato extraparlamentare di sinistra, come si nasce incendiari da giovani, e maturato democristiano azzimato ed elegante, come quando si muore pompieri, ha fatto quel che ha potuto per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, tirando brillantemente a campare senza tirare le cuoia...: vero, presidente Andreotti? Un ottimo allievo, non c'è che dire...). La totale incompetenza dei tre vertici, sommata a quella del burattino messo alle Infrastrutture per stretta osservanza delle equazioni del Manuale Cencelli relativo alle spartizioni di potere, la pagheranno e la pagano sulla propria pelle i genovesi che si sono ritrovati senza casa (e pare siano seicento persone), i parenti delle vittime che non avranno altro che un funerale di stato pagato anche coi loro soldi e con quelli di coloro che non torneranno a casa, così come rischiamo di pagarla anche noi che abitiamo lontano da lì, perchè il contratto di servizio prevede una clausola rescissoria pari a una manovra finanziaria di aggiustamento e i vari gradi di giudizio, in cui sarà calcolato il danno economico e finanziario coi relativi risarcimenti, saranno pari a una cospicua legge di bilancio. Intanto, in silenzio, come e più dei carabinieri, i vigili del fuoco seguiteranno a tenerci lontani dai guai o fare in modo che ci si caschi in numero sempre minore, politici senza scrupoli a cavalcare proteste e a parlare a sproposito per spigolare voti, blogger e opinionisti improvvisati a imperversare su tutti i canali a reti unificate. 
© 2018 Testo di Claudio Montini
© 2016 Immagine di Orazio Nullo "Night flight over Giovi Pass" Atelier des Pixels collection

mercoledì 8 agosto 2018

Anteprima da "Ai nostri paesi ce ne son delle più belle"

LO SPIRITO DI SAIRANO
di Claudio Montini
Avere un posto in cui tornare, oppure uno da cui partire senza la certezza di rivederlo e, in fondo, nemmeno il rimpianto vuol dire essere ancora vivi: così sosteneva Cesare Pavese in un passaggio de La luna e i falò. Rispetto al maestro piemontese e langhigiano (già professore di letteratura inglese presso l'università di Torino, relatore della tesi di laurea di Fernanda Pivano, redattore e collaboratore della casa editrice Einaudi), io non sono che un granello di sabbia in riva al mare; tuttavia ho conservato un buon ricordo delle persone e dei luoghi che hanno caratterizzato e, devo ammetterlo, in parte forgiato la mia infanzia, l'adolescenza e la gioventù: rispetto a lui, ho questo vantaggio e, probabilmente, esso mi salverà dal peso del senso di estraniamento e dalla sensazione di estraneità crescente che hanno condotto il professor Pavese a togliersi la vita. Per fortuna, io ho Sairano che non è un paese come gli altri, anzi, è smemorato come tutti gli altri; ma li batte e sta in vantaggio su di loro perchè insegna a condividere e ricordare la gioia delle piccole cose, delle abitudini, della gente che si guarda in faccia, che si rinfaccia le peggio cose ma che, quando c'è una lacrima da asciugare o un dispiacere da consolare o un morto da accompagnare e far vivere nel ricordo di tutti, non è secondo a nessuno. A chi mi chiede di descrivere i sairanesi, dico che loro sono come i giapponesi con la macchina fotografica al collo: lo dico perchè di tutti i pavesi, loro sono gli unici che cercano sempre di cavarsela meglio che possono e a testa alta in qualsiasi frangente, sanno annusare l'aria e cercano di andare d'accordo con tutti per cavarne il massimo profitto in questa vita, che è una sola ed è inutile perdere tempo ad avvelenarla al prossimo. Badano al sodo, ma non dimenticano gli amici e la buona tavola: per marcare le distanze da antipatici e arroganti, li apostrofano ricordando loro che non hanno mai mangiato il risotto insieme; rispettano l'impegno e la generosità, ma non amano gli eccessi. Sairano è un posto da cui si smania di partire per far fortuna e si spera di tornare vincitori, ma anche un posto dove si torna volentieri, foss'anche solo con la memoria, giusto per riassaporare le cose buone di una volta. Lo sapeva bene anche il conte Carena che ristrutturò il castello (fondato da un capitano di ventura della guerra dei Trent'anni, così ricompensato dalla corona di Spagna per i suoi servigi) nel XX secolo, elevandolo a casa di campagna dove coltivare l'otium inteso alla latina: infatti, all'ingresso degli appartamenti privati pose una scritta emblematica nella lingua di Cicerone "Civiles curae procul hinc abite", andate lontano da qui preoccupazioni civili ovvero state alla larga da questo posto tribolazioni del lavoro e della vita pubblica. Del resto, il conte era un notaio che aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale, come i tanti che sono scritti sul monumento ai caduti (inaugurato nel 1929 proprio davanti all'ingresso carraio del maniero, sul quale tutti i coscritti hanno scattato una foto ricordo dell'avvenuta visita di leva); come tanti notabili che, in qualche modo, avevano partecipato all'ultima guerra risorgimentale o alla prima del secolo breve, anch'egli aveva caro il tenere distinta la vita professionale e pubblica da quella privata e rustica, legata al blasone conquistato o acquistato (sostengono le malelingue) e basato sul censo o sulla proprietà terriera. Lo spirito di Sairano, che si era già manifestato ai primi coloni eredi di Caio Giulio Cesare e a quelli Ottaviano Augusto, credo lo abbia ripagato e altrettanto abbia fatto con i suoi eredi concedendo a tutti dosi generose di buon senso pratico, sarcasmo e scetticismo uniti a istinto di sopravvivenza e curiosità che hanno fatto sì che echi e boati del mondo, tanto incalzanti e contraddittori quando non perniciosi per la salute, giungessero ben distinguibili sino a lì ma fossero anche interpretati (ma non copiati), distillati (ma non mutuati), metabolizzati (ma non approvati) o, infine, marginalizzati e dimenticati. Non ho mai sentito il bisogno di tornare a Sairano perchè il suo spirito, in fondo all'anima, mi ha sempre fatto compagnia come una coscienza implacabile, spietata, che vive di vita propria ma che ha saputo consigliarmi e, lo devo ammettere a denti stretti, consolarmi nei momenti difficili della vita e della scrittura, due mestieri faticosissimi e due passioni cui non voglio rinunciare. Ai nostri paesi ce ne son delle più belle non è una antologia di racconti e non è un monumento alla memoria, o per meglio dire, non è soltanto queste cose: è un prodotto nuovo di quel coacervato di idee, sensazioni, sogni e riflessioni che per qualche misteriosa ragione prende domicilio nella mia testa, si tuffa nel cuore ed esce dalle dita componendosi sulla pagina. E' la maturazione di materiale già scritto e pubblicato, ma dotato di potenzialità inespresse che fremevano e urlavano tra le righe per essere liberate, messe in luce e armonizzate al flusso narrativo. E' la specialità dello spirito di Sairano e dei sairanesi: quella di traformare cose vecchie in sogni nuovi da sognare, in ogni dannato posto del mondo essi si trovino a viaggiare.

© 2018 testo di Claudio Montini
© 2018 Immagine creata da Orazio Nullo

domenica 5 agosto 2018

Cavalcando il Ferragosto prossimo venturo...

...buone vacanze a chi può ancora permettersele!
di Claudio Montini

E' finalmente arrivato anche il primo fine settimana di agosto, quello che precede i quindici giorni più strani e formidabili dell'anno: ovvero quelle due settimane in cui tutta l'Italia, secondo la comune opinione, abbassa le saracinesche, chiude casa e scappa altrove a spendere la maggior parte del tempo a oziare, mangiare, bere e dormire. Sono le settimane a cavallo di Ferragosto. Sono quel periodo in cui persino la televisione, campo giochi preferito da governanti e aspiranti tali, nani, giocolieri, saltimbanchi e tuttologi vari, sembra voler smettere di rimbambirci con materassi massaggianti, padelle antiaderenti e autopulenti, apparecchi acustici che nemmeno 007 al servizio di Sua Maestà Britannica possono permettersi per sgominare il cattivo di turno, pantaloni snellenti e calze elastiche vecchiaia repellenti; anzi, addirittura si dimentica di aggiornarci il contatore degli omicidi di donne, profughi, guidatori ubriachi o morti di sonno, stupri e rapine; nemmeno l'inquinamento dei mari e delle prove nei processi di ordine e grado, il debito pubblico, i rincari dei servizi essenziali e il malfunzionamento di ospedali e pronto soccorso riesce a scuotere le coscienze desiderose di vacanza. Proliferano reportage sui luoghi di villeggiatura e sulle prelibatezze da scoprire ad ogni piè sospinto lungo lo stivale italico (in fondo, meglio che qui da noi dove altro mai si mangia così bene e altrettanto genuino? Vade retro sushi, cavallette fritte e radici bollite con la marmellata di non si sa cosa...!!). Pure i ragazzini cavati fuori dalla grotta thailandese, la prima cosa che avrebbero voluto (altro che flebo e omogeneizzati!) era sbranare del pollo fritto e del maiale in agrodolce con tanto riso, una volta in salvo. E' vero, la televisione ci ha portato quella tragedia in casa e ci siamo tutti sentiti angustiati da un lieto fine che tardava ad arrivare: ci siamo sentiti vicini a quei genitori che hanno fatto la sola cosa che potevano fare: pregare affinchè tutto andasse per il meglio e anche i più miscredenti tra di noi l'hanno fatto; magari di nascosto, ma l'hanno fatto più volentieri che se si fosse trattato di un boat people proveniente dal nordafrica o per una onlus che, spiace dirlo ma diventa ogni giorno sempre più evidente, si incarica di fare da mediatore di carne umana tra la mafia mondiale (che di fatto gestisce il traffico) e le macerie della civiltà occidentale a corto di cavie umane, di schiavi e di organi di ricambio per attempati agiati, ingordi, lussuriosi, spregiudicati affatto decisi a sollevare il tallone con cui schiacciano il loro prossimo in una valle di lacrime per far valere la propria eccellenza. D'altra parte, se non ci fossero i poveri e disperati, come diamine farebbero a distinguersi i ricchi? Dovrebbero mettersi a lottare contro chi vuole raggiungerli assai più di quanto non facciano ora. Dovrebbero insegnare alla televisione come convincerci che siamo tutti uguali, tutto va bene e che c'è abbastanza di tutto per tutti, che la crisi è finita, che la guerra è finita (qualunque essa sia), che la mafia non esiste e che la droga non fa male: anzi aiuta a sognare un mondo migliore e persino a vederlo, molto più di quanto abbiano fatto le parole e i (presunti) miracoli di un falegname nato in uno sperduto villaggio della Palestina e morto appeso a una croce di legno, che forse aveva scalpellato lui stesso; dicono i bene informati che sia stato addirittura rianimato e fatto fuggire dalla sua tomba, riapparendo qua e là rincuorando i suoi seguaci. Sì credo proprio che i superstiti opulenti della cosiddetta civiltà occidentale cerchio un'altro fenomeno del genere per assicurarsi almeno altri venti secoli di dominio assoluto: alla faccia della presunta democrazia liberale. Intanto vogliate gradire musica da ballo, gelati e cocco freschi con il mio augurio di buone vacanze a chi potrà permettersele: io non posso fare altro, non sono nel novero di codesti fortunati.
© 2018 Testo di Claudio Montini
© 2016 Immagine di Orazio Nullo "Italian solitary beach" - Atelier des pixels collection

venerdì 3 agosto 2018

Due agosto 1980, ore 10:25 a Bologna

UN SOGNO PREMONITORE
di Claudio Montini

Era l'ultimo giorno di villeggiatura, in vacanza col prete sulle montagne piemontesi, a Ceresole Reale: quella notte ebbi un sonno agitato, mi disse al mattino il compagno di branda, quello che dormiva al piano superiore. Candidamente domandai: "Come hai fatto a rendertene conto se russi più di me e ti addormenti prima?" " Ho sognato un incubo terribile: stavo in mezzo a una esplosione; tutto si faceva a pezzetti come mattoncini Lego e scappava da me in tutte le direzioni e io cadevo in una buca." "Vedi che succede a ingozzarti di gelato prima di salire in camera? Per non dire dei biscotti al cioccolato che sai solo tu come nascondere nel cuscino..." "Parli te che stanotte sembravi una betoniera di ghiaione e cemento da fondamenta! Ho messo la testa due volte sotto per vedere se stavi male...non ti sei mai agitato tanto nemmeno quando siamo tornati dal Nivolet con la faringite e la febbre a trentotto...""...che è sparita quando ho fatto i gargarismi con l'acqua ossigenata e sputato le placche che avevano infiammato le tonsille: una scopa, come dice la signora Rina. Comunque io, con la febbre, dormo e sudo." Ci guardammo negli occhi e non ci volle molto a capire che, forse, avevamo fatto lo stesso sogno e che in fondo al cuore avevamo ancora paura di quello che avevamo visto proiettarsi sulle palpebre chiuse. Era comprensibile che i nostri animi adolescenziali fossero in subbuglio, non solo per la giostra degli ormoni che iniziava a girare: era il due agosto del 1980, c'era ancora la guerra fredda, Usa e Urss si facevano dispetti reciproci, c'era il terrorismo rosso e nero e a strisce anche per le contrade italiche, un aeroplano caduto o forse abbattuto partito da Bologna e diretto a Palermo, i treni che non arrivavano mai puntuali ma ogni tanto esplodevano puntuali in galleria e noi che dovevamo sceglierci una strada per costruirci il futuro, magari come impiegati dello stato o delle forze armate o capitani d'industria. Era anche il compleanno di un nostro amico comune e ci scordammo di tutto tranne che di quello, perchè si festeggiò con una torta a colazione e una a pranzo prima di ritornare a casa, nella nostra provincia che credevamo essere ai confini dell'impero, nel nostro paese piccolo e immutabile. Ma c'era già la televisione, a colori e in diretta, che ci spiegò lo smarrimento misto alla felicità, superiore al dovuto e al solito, dei nostri genitori quando scendemmo dalle due corriere e ci ammassammo a recuperare le nostre valigie. Io, la stazione di Bologna non l'avevo mai vista prima e ora era lì come se fosse stata presa a calci da un gigante, un mucchi di macerie e polvere persino sui treni fermi sui binari, ammaccati e coi finestrini polverizzati, i taxi gialli arenati lì davanti e alcuni mezzo sepolti, i camion dei pompieri e un'autobus (che cosa mai ci faceva lì un'autobus? Poi ho visto le barelle ci che salivano sopra e ho capito). Poi vidi l'orologio della stazione, appeso al muro col quadrante appena un poco squinternato, che segnava l'ora dello scoppio: perchè nemmeno per un'istante ho creduto allo scoppio di una caldaia. Che bisogno c'era di accendere una caldaia, il due di agosto a Bologna con tutta la gente che doveva partire per il sud, per il mare per le vacanze? Che bisogno c'era di mettere una bomba proprio lì, in un coacervo e raduno di poveri cristi che volevano solo andarsene a rilassarsi in un bel posto? Il due agosto millenovecentoottanta faticai a prendere sonno: avevo paura di fare altri sogni premonitori, avevo paura non riuscire a fare altri sogni per colpa di qualcuno che ancora oggi, due agosto duemiladiciotto, non si è pentito di quello che ha fatto né degli ottantacinque morti che ha sulla coscienza, ammesso e non concesso che ne abbia una.
© 2018 testo di Claudio Montini
© 2018 Immagine di Orazio Nullo