Ventunesimo
capitolo:
Non sparate sul pianista
di Claudio Montini
Prima,
una porta chiusa con la foga di chi l'avrebbe voluta scardinare e
rompere sulla testa di un interlocutore che, per mille ragioni, non
si poteva altrimenti mandare a quel paese; poi, una motocicletta,
forse tutta cromata e forse no, che si allontanava sbraitando dalla
marmitta ogni marcia del motore in un crescendo rossiniano; alla fine
tornò la quiete fittizia condita col rumore di fondo del traffico
attutito dalle barriere dell'autostrada, mescolato al buio pesto
debolmente attenuato dai colori dell'insegna luminosa sul tetto del
motel e dai lampioncini col numero della stanza: con tutto ciò, la
Signora spalancò gli occhi e tentò di rizzarsi seduta sul letto,
preda di un panico ancora incosciente come se non avesse udito la
sveglia e fosse in ritardo per un'appuntamento. L'emicrania
strinse d'assedio le tempie e aggiunse dolore al fastidio di dover
riemergere dalla profondità di un sonno finalmente sereno e disteso,
a guisa di balena che interrompa la scorpacciata di plancton degli
abissi onde riguadagnare la superficie del mare per respirare.
Accese
un lampo di luce solo per rendersi conto dove fosse e per vedere che
non ci fossero sveglie martellanti sul comodino: no, la testa
rimbombava per altri motivi. Si
lasciò ricadere sul cuscino confidando in un rapido soccorso del dio
del sonno affinché le concedesse, se non l'oblio d'un sogno, almeno
la fine della pressione che attanagliava la scatola cranica:
rumorosamente, una bolla d'aria e vapori alcolici risalì il tubo
digerente e dissolse il cerchio alla testa, rilassando il resto dei
muscoli ma caricandoli di una spossatezza paralizzante. D'accordo,
un rutto non fa primavera ma muove la classifica e l'emicrania pareva
quietarsi; dopo tutto quello che aveva mangiato e bevuto da Oscar,
sopratutto bevuto, quello era il minimo che le potesse accadere:
avrebbe potuto anche vomitare tutto e soffocarsi come una vecchia
baldracca ubriacona, abbandonata chissà dove e ritrovata quando era
ormai troppo tardi. Un po' baldracca lo era stata, è vero; ma non
sarebbe mai diventata vecchia: l'aveva deciso prima di partire con
Valkowskij, appena uscita dallo studio del notaio Carcangiu, no,
appena Giustina aveva apposto l'ultima firma sui documenti.
Ecco,
doveva rimanere sobria e lucida fino al termine del funerale di
Amedeo, cioè quando i muratori avrebbero cominciato a posare la
malta e poi una fila di mattoni forati e poi ancora malta e ancora
altri forati, fino a chiudere il loculo mentre spremute di falangi e
abbracci condivano la successione di condoglianze, lacrime e occhi
arrossati o pronti a esondare sulle guance. Ogni
cosa a suo tempo, disse a se stessa coprendosi il viso con le
mani e lasciandole cadere sul petto: c'era una coperta leggera tra i
palmi e i suoi vestiti e una serie di domande che frullavano per la
testa in cerca di risposta. Avrebbe
voluto alzarsi e spogliarsi, magari farsi una lunga doccia calda e
infilarsi di nuovo a letto, ma dentro le lenzuola per scrollarsi di
dosso quella stanchezza che appesantiva e indolenziva ogni centimetro
cubo della sua carne: ma quel pensiero, quel desiderio una volta
tanto logico, rimase un lampo muto e senza bersaglio. Inutile
indovinare dove fosse finito Valkowskij, perchè l'avesse depositata
lì e, quel che è peggio, che diamine di posto fosse quello. Troppe
domande tutte insieme: le palpebre si erano già richiuse, la testa
reclinata e il respiro s'era fatto regolare.
Era
mattino o giorno pieno? Era
primavera oppure estate? L'aria
era tiepida, profumata di fiori e di frutta e di erbe della sua
terra, il cielo non aveva nuvole e il mare si intuiva dagli scrosci
delle onde che si infrangevano sugli scogli; l'odore del mare, il
sentore di alghe e salsedine, si insinuava tra gli altri aromi
invitandola a scendere il viale di ghiaietta bianca, limitato da
lavanda e rosmarino che si alternavano senza soluzione di continuità,
fino alle sbarre di un cancello di ferro nero che si stagliava contro
la coda bianca di un pianoforte da cui saliva una flebile melodia. Alle
spalle lasciava un viale di platani con fiori finti legati ai fusti e
qualche foglia ingiallita sull'asfalto: automobili di varia foggia e
colore sfrecciavano nelle due direzioni, ma ormai non la
interessavano più. Era
attratta dalla musica, sebbene non capisse ancora dove fosse capitata
e neppure come: stringeva in cuore solo l'intima certezza di dover
scendere fino alla terrazza su cui stava quel pianoforte che stava
suonando; una volta lì, appoggiata alla balaustra sicuramente a
picco sul mare, ad occhi chiusi, avrebbe goduto della sapiente danza
delle dita del suonatore sul tappeto d'ebano e d'avorio mentre
l'alito del mare avrebbe gonfiato la sua veste di lino e scompigliato
i suoi capelli. Nonostante
fosse scalza, corse fino al cancello come se camminasse sul pavimento
in cotto di Villa Gelsomina: le parve addirittura di volare. Varcata
la soglia, però, avrebbe voluto scappare, tornare indietro, chiudere
gli occhi con forza e riaprirli di scatto sul buio che avrebbe dovuto
circondare il suo letto. Lo
fece più volte ma non ottenne nulla; provò persino a ritornare sui
suoi passi, ma il cancello si allontanò da lei e si chiuse
saldamente davanti al suo naso. Era
in trappola, era sola, aveva paura e non era la prima volta che
accadeva; ma qui e ora, accidenti, stava sicuramente sognando e non
avrebbe voluto vedere Amedeo seduto al pianoforte che suonava
Gershwin con tanto di smoking e cravattino a farfalla, come se fosse
sul palcoscenico del Radio City Music Hall o in qualche locale
elegante a Las Vegas. Lui
le sorrise inclinando la testa di lato e dondolandola, per
sottolineare la linea sincopata della melodia; poi, parlò seguitando
a suonare.
«
Benvenuta nella terra di nessuno, l'ultima stanza dove i due mondi si
intrecciano, si toccano e si parlano; l'ultima spiaggia dove
passeggia la giustizia mentre aspetta la verità: questo è lo
scoglio su cui naufragano le buone intenzioni e ogni ingenua
illusione. Bada che in pochissimi hanno questa opportunità: è data
solo a chi ha tanto amato o tanto sofferto. Questa
sarà l'ultima volta che ci vediamo; il mio bilancio è già stato
chiuso e approvato: sono in cammino per la nuova meta: incontrarti
qui e in questo modo, ne è la prima tappa. »
La
Signora si era avvicinata al pianoforte, senza staccare gli occhi da
Amedeo, fermandosi alla punta arrotondata come se volesse
sottolineare quanto fossero l'uno agli antipodi dell'altra: lui morto
che parla e lei vittima di un brutto sogno ma, in fondo, viva; il
coperchio era chiuso e il piano candido era come un bizzarro tavolo
su cui erano disposti altrettanto curiosi oggetti: due volumi
ponderosi, due proiettili, varie fotografie e una pistola che
riconobbe immediatamente; non prestò molta attenzione ai due libri o
alle fotografie, perchè pensò che avessero attinenza col bilancio
cui faceva riferimento Amedeo che, quasi avesse letto i suoi
pensieri, accennò alla pistola semiautomatica lasciando che le sue
dita danzassero imperterrite sui tasti bianchi e neri.
«Quella
la stanno ancora cercando, Del Bosco e Campoporzio; si augurano di
trovartela addosso, così resterebbe loro soltanto il compito di
ammanettarti, tradurti nelle patrie galere per farti comparire
davanti a un giudice: ma i loro auspici saranno soddisfatti solo a
metà... Valkowskij sa bene che te la porti appresso ma ignora lo
scopo per ilqualete lasei portata appresso anche questa volta: del
resto, ti ha insegnato a usarla, fin troppo bene a mio parere, e
mantenerla efficiente e il suo compito ha sempre pensato che fosse
finito lì...» aggiunse il pianista ultraterreno avviandosi alla
conclusione del brano.
Quando
smise di suonare, la fissò puntando lo sguardo dritto nelle sue
pupille e assumendo un'aria seria.
«
Quelli, invece...Sì, quei due proiettili sono proprio quelli che tu
hai regalato a me, tre giorni fa, in treno: dato che a me non servono
più, te li restituisco e, mi raccomando, fanne buon uso... »
C'era
amarezza e non sarcasmo, nella sua voce, ma la Signora non apprezzò
né l'una né l'altro e puntò l'arma a braccia tese contro colui che
sapeva troppo e poteva ancora romperle le uova nel paniere: Amedeo
sapeva già come si sarebbe conclusa l'intera vicenda e assunse
un'aria mesta, rassegnata alla cecità e alla miopia dei viventi. Le
voleva ancora bene, nonostante tutto, così come ne voleva a chi
aveva incrociato la sua rotta e ne aveva condiviso un tratto
scambiando affetto, attenzione, sostegno reciproco ma che sarebbe
rimasto a ricordarlo nella valle di lacrime. Se
avesse potuto, l'avrebbe dissuasa dal mettere in atto il suo piano
ma, nella terra di nessuno, quella cosa non era stata concessa
nemmeno al figlio di Colui che Lassù Risiede quando aveva
rinegoziato i patti fra i figli dell'uomo e il Padre suo.
«Ehi!
Non li leggi i cartelli?» protestò Amedeo.
«Quali
cartelli?!?!?» replicò stupita la Signora.
«Da
qualche parte ne hanno messo uno grosso così che dice NON SPARATE
SUL PIANISTA! TANTO E' GIA' MORTO!!»
Spalancò
la giacca e mise in mostra la camicia con i due fori d'entrata ancora
lordi di sangue, sul petto all'altezza dello sterno: tanto bastò
perchè il terrore puro si impadronisse della donna che scaricò
mezzo caricatore sulla serratura del cancello. Quest'ultimo
non si fece un graffio ma si aprì ugualmente e la vide correre senza
voltarsi lungo il vialetto, barcollare e incespicare sulla ghiaia,
rialzarsi e seguitare a correre verso la strada trafficata. All'ultimo
metro, cadde di nuovo e perse la pistola che volò tra una lavanda e
un rosmarino mentre tentava di ammorbidire l'atterraggio sulla
ghiaia, istintivamente, coi palmi aperti e le braccia pronte
all'impatto. Si risvegliò sudata, ammaccata, stropicciata e bocconi
sulla moquette della stanza di motel dove l'aveva deposta Dimitrij
Nikolaevič dopo la bisboccia da Oscar e l'addio a Pavia.
(c) 2016 Testo di Claudio Montini tratto da IL DESTINO E' UN'AMANTE SENZA PIETA' StreetLib Selfpublishing
(c) 2016 Immagine di Orazio Nullo per VideoKlaut66
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