Davide Zardo
VIGEVANO ROSSO
DUCALE
i delitti di
Beatrice d'Este
2016 Pagine in Movimento
I GIORNI E LE OMBRE
DEL COMMISSARIO SPADA
di Claudio Montini
Edgar Allan Poe e sir Arthur Conan Doyle si sono finalmente stretti
la mano grazie ai buoni uffici di Agatha Christie, Renato Olivieri,
Giorgio Scerbanenco e gli applausi di Vincenzo Maimone, Enrico
Pandiani, Romano de Marco e un distratto (dagli esiti della
incarnazione televisiva di Schiavone) Antonio Manzini; tutto questo
movimento di astri del firmamento letterario di ispirazione
poliziesca ha generato un flusso di ottime e potenti vibrazioni che
si sono infuse e trasmesse nell'estro e nell'arte di Davide G. Zardo,
agevolando la venuta alla luce di VIGEVANO ROSSO DUCALE – i
delitti di Beatrice d'Este (Ed. Pagine in Movimento, 2016)
che, dopo Nebbie e altri miracoli (Ed.
Giallomania, 2014), antologia di racconti, rappresenta il suo
esordio come romanziere a lungo metraggio senza smettere il ruolo di
cronista del territorio (è, infatti, giornalista pubblicista dal
2006 e collabora con alcune testate pavesi e lomelline in
particolare). Decenni dopo Mastronardi, Vigevano torna ad essere protagonista
letteraria dopo esserlo stata delle cronache nazionali per fatti e
polemiche poco edificanti, le quali ultime trovano eco anche nelle
pagine di Zardo che se ne serve abilmente per dare più sapore di
intrigo e di mistero a un giallo di stampo britannico nel senso più
ampio e classico del termine, ma anche per dichiarare un'amore
disperato e sconfinato per la ex capitale della calzatura (così come
Pavia lo è stata per le macchine per cucire) oltre che stigmatizzare
i comportamenti della classe dirigente e della società che gli gira
intorno, nessuno escluso, con una prudenza degna del miglior
ermetismo (CONVERSAZIONE IN SICILIA di Elio Vittorini al
proposito, docet) ma pungendo con una ironia tagliente e serrata
degna dei migliori passi de L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNEST di
Oscar Wilde. A carnevale ogni scherzo vale, ma il commissario Spada prenderebbe
volentieri a prestito la scala di rotture di coglioni del collega
aostano, obtorto collo, Rocco Schiavone, per collocare la morte di un
ex assessore alla cultura al massimo livello: un po' perchè spera
vanamente che la moglie ritorni sui suoi passi e riprenda la via al
suo fianco, un po' perchè l'omicidio maldestramente camuffato da
suicidio si intreccia con un furto di una calzatura carica di sette
secoli di storia, essendo appartenuta a Beatrice d'Este sposa giovane
e sfortunata di Ludovico Sforza detto il Moro, un po' perchè
circolano strane voci su una lottizzazione edilizia nei confronti di
un'area naturalistica su cui insiste un'opera di ingegneria idraulica
firmata da Leonardo da Vinci in persona, in difesa della quale la
vittima si era spesa opponendosi strenuamente alle mire dei nuovi
inquilini del palazzo comunale. Già, i guerrieri della lotta allo spreco e allo sperpero di pubblico
denaro, che non fanno sconti nemmeno ai bambini negando la mensa
scolastica a chi non paga puntualmente la retta o, peggio, vanta
debiti arretrati senza investigare sulle cause o sulle condizioni o
sulle ragioni, col paraocchi ideologico e propagandistico tipico dei
gabellieri medievali cui il simbolo di partito si ispira: anche loro
verranno smascherati dalla Nemesi, la dea riparatrice delle
ingiustizie, riprodotta in un quadro custodito nel Museo Civico da
cui è sparita la pianella sforzesca, con modalità che rimandano
alla prima parte de IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco e ai
finali di Chandler e Hammett, in cui i buoni "modificano" a
fin di bene la scena del crimine facendo un favore a sè stessi e
alla giustizia. Tutto è bene quel che finisce bene? L'amore trionfa? Ai posteri,
pardon, ai lettori l'ardua sentenza: intanto le ombre e i giorni del
commissario Spada, nostalgico milanese trapiantato a Vigevano,
filosofo con la pistola e la lente d'ingrandimento alla Sherlock
Holmes, si allungano e svaniscono ma non risolvono il misterioso
cammeo della duchessa che, tra le righe e dietro le quinte della
storia, si riappropria della pianella sottrattale da un servo devoto
il giorno che venne deposta nella Certosa di Pavia; si aggira per le
strade della amata Vigevano per constatare quanto i poveri, a lei
così cari, siano sempre più marginalizzati da crapuloni borghesi;
lascia entrambe le calzature come prova a carico del colpevole,
vendicandosi così di tutti coloro che avevano avvelenato la città
in cui aveva vissuto un poco di felicità e liberandosi da ogni
vincolo con questa valle di lacrime. VIGEVANO ROSSO DUCALE è un romanzo soltanto in
apparenza semplice, lineare, scorrevole nella lettura e nella
immaginazione (nel senso anglofono del termine, ovvero la creazione
di immagini dal testo): in realtà è un complesso meccanismo
multistrato, come la cosmologia tolemaica e aristotelica fatta di
sfere inserite le une nelle altre e influenti tra loro, un filo
d'acciaio teso tra due mondi paralleli su cui Davide G. Zardo cammina
con estrema prudenza registrando ogni possibile fluttuazione di
energia, rendendola godibile e apprezzabile anche a noi comuni
mortali col puntiglio e con la grazia e la sensibilità propria dei
poeti. Il centro della costruzione rimane l'uomo: non il commissario, né la
vittima, né i collaboratori, neppure il colpevole o i suoi complici;
è l'essere umano e ciò che sente e che prova e che vive ad essere
coprotagonista insieme alla città, che non è più soltanto teatro o fondale o quinta fissa, ma diventa soggetto da scoprire, da
conoscere, da studiare rivelandosi carico e pregno di storia, di
storie e di bellezza che merita più di uno sguardo di annoiata
sufficienza. Poi viene l'omaggio ai grandi giallisti del passato, adottandone lo
schema narrativo: la morte violenta, l'inchiesta, la raccolta dei
dettagli e delle informazioni, il ragionamento e la riunione dei
presunti colpevoli e dei comprimari in una stanza, un tranello ben
allestito e una disamina retorica dei fatti, un bel rasoio di Occam,
che inchiodi il colpevole alle sue responsabilità lasciandogli solo
la scelta tra l'ammissione di colpa o la disperata fuga.
Il caso è risolto ma non la vita, che rimane il mestiere più
complicato e la matassa più intricata da sbrogliare, poiché non
risponde sempre alla logica deduttiva e non ha una dinamica lineare e
non ha neppure una meta, come i pensieri privati del commissario
autentica prova di prosa poetica.
VIGEVANO ROSSO DUCALE
– i delitti di Beatrice d'Este (Parole
in Movimento, 2016) va
letto e riletto perchè, ad ogni volgere di pagina, si toglie un velo
di bomboniera e si respira aria di poesia giungendo a un cuore di
zucchero e mandorle, tanto gustoso quanto sottovalutato e troppo
celato.
©
2017 Testo di Claudio Montini
©
2017 Foto di Orazio Nullo
Nessun commento:
Posta un commento