domenica 8 gennaio 2017

Letti & Piaciuti: Davide G. Zardo VIGEVANO ROSSO DUCALE -i delitti di Beatrice d''Este- 2016 Pagine in Movimento

Davide Zardo
VIGEVANO ROSSO DUCALE
i delitti di Beatrice d'Este
2016  Pagine in Movimento 



I GIORNI E LE OMBRE DEL COMMISSARIO SPADA

di Claudio Montini

Edgar Allan Poe e sir Arthur Conan Doyle si sono finalmente stretti la mano grazie ai buoni uffici di Agatha Christie, Renato Olivieri, Giorgio Scerbanenco e gli applausi di Vincenzo Maimone, Enrico Pandiani, Romano de Marco e un distratto (dagli esiti della incarnazione televisiva di Schiavone) Antonio Manzini; tutto questo movimento di astri del firmamento letterario di ispirazione poliziesca ha generato un flusso di ottime e potenti vibrazioni che si sono infuse e trasmesse nell'estro e nell'arte di Davide G. Zardo, agevolando la venuta alla luce di VIGEVANO ROSSO DUCALE – i delitti di Beatrice d'Este (Ed. Pagine in Movimento, 2016) che, dopo Nebbie e altri miracoli (Ed. Giallomania, 2014), antologia di racconti, rappresenta il suo esordio come romanziere a lungo metraggio senza smettere il ruolo di cronista del territorio (è, infatti, giornalista pubblicista dal 2006 e collabora con alcune testate pavesi e lomelline in particolare). Decenni dopo Mastronardi, Vigevano torna ad essere protagonista letteraria dopo esserlo stata delle cronache nazionali per fatti e polemiche poco edificanti, le quali ultime trovano eco anche nelle pagine di Zardo che se ne serve abilmente per dare più sapore di intrigo e di mistero a un giallo di stampo britannico nel senso più ampio e classico del termine, ma anche per dichiarare un'amore disperato e sconfinato per la ex capitale della calzatura (così come Pavia lo è stata per le macchine per cucire) oltre che stigmatizzare i comportamenti della classe dirigente e della società che gli gira intorno, nessuno escluso, con una prudenza degna del miglior ermetismo (CONVERSAZIONE IN SICILIA di Elio Vittorini al proposito, docet) ma pungendo con una ironia tagliente e serrata degna dei migliori passi de L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNEST di Oscar Wilde. A carnevale ogni scherzo vale, ma il commissario Spada prenderebbe volentieri a prestito la scala di rotture di coglioni del collega aostano, obtorto collo, Rocco Schiavone, per collocare la morte di un ex assessore alla cultura al massimo livello: un po' perchè spera vanamente che la moglie ritorni sui suoi passi e riprenda la via al suo fianco, un po' perchè l'omicidio maldestramente camuffato da suicidio si intreccia con un furto di una calzatura carica di sette secoli di storia, essendo appartenuta a Beatrice d'Este sposa giovane e sfortunata di Ludovico Sforza detto il Moro, un po' perchè circolano strane voci su una lottizzazione edilizia nei confronti di un'area naturalistica su cui insiste un'opera di ingegneria idraulica firmata da Leonardo da Vinci in persona, in difesa della quale la vittima si era spesa opponendosi strenuamente alle mire dei nuovi inquilini del palazzo comunale. Già, i guerrieri della lotta allo spreco e allo sperpero di pubblico denaro, che non fanno sconti nemmeno ai bambini negando la mensa scolastica a chi non paga puntualmente la retta o, peggio, vanta debiti arretrati senza investigare sulle cause o sulle condizioni o sulle ragioni, col paraocchi ideologico e propagandistico tipico dei gabellieri medievali cui il simbolo di partito si ispira: anche loro verranno smascherati dalla Nemesi, la dea riparatrice delle ingiustizie, riprodotta in un quadro custodito nel Museo Civico da cui è sparita la pianella sforzesca, con modalità che rimandano alla prima parte de IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco e ai finali di Chandler e Hammett, in cui i buoni "modificano" a fin di bene la scena del crimine facendo un favore a sè stessi e alla giustizia. Tutto è bene quel che finisce bene? L'amore trionfa? Ai posteri, pardon, ai lettori l'ardua sentenza: intanto le ombre e i giorni del commissario Spada, nostalgico milanese trapiantato a Vigevano, filosofo con la pistola e la lente d'ingrandimento alla Sherlock Holmes, si allungano e svaniscono ma non risolvono il misterioso cammeo della duchessa che, tra le righe e dietro le quinte della storia, si riappropria della pianella sottrattale da un servo devoto il giorno che venne deposta nella Certosa di Pavia; si aggira per le strade della amata Vigevano per constatare quanto i poveri, a lei così cari, siano sempre più marginalizzati da crapuloni borghesi; lascia entrambe le calzature come prova a carico del colpevole, vendicandosi così di tutti coloro che avevano avvelenato la città in cui aveva vissuto un poco di felicità e liberandosi da ogni vincolo con questa valle di lacrime. VIGEVANO ROSSO DUCALE è un romanzo soltanto in apparenza semplice, lineare, scorrevole nella lettura e nella immaginazione (nel senso anglofono del termine, ovvero la creazione di immagini dal testo): in realtà è un complesso meccanismo multistrato, come la cosmologia tolemaica e aristotelica fatta di sfere inserite le une nelle altre e influenti tra loro, un filo d'acciaio teso tra due mondi paralleli su cui Davide G. Zardo cammina con estrema prudenza registrando ogni possibile fluttuazione di energia, rendendola godibile e apprezzabile anche a noi comuni mortali col puntiglio e con la grazia e la sensibilità propria dei poeti. Il centro della costruzione rimane l'uomo: non il commissario, né la vittima, né i collaboratori, neppure il colpevole o i suoi complici; è l'essere umano e ciò che sente e che prova e che vive ad essere coprotagonista insieme alla città, che non è più soltanto teatro o fondale o quinta fissa, ma diventa soggetto da scoprire, da conoscere, da studiare rivelandosi carico e pregno di storia, di storie e di bellezza che merita più di uno sguardo di annoiata sufficienza. Poi viene l'omaggio ai grandi giallisti del passato, adottandone lo schema narrativo: la morte violenta, l'inchiesta, la raccolta dei dettagli e delle informazioni, il ragionamento e la riunione dei presunti colpevoli e dei comprimari in una stanza, un tranello ben allestito e una disamina retorica dei fatti, un bel rasoio di Occam, che inchiodi il colpevole alle sue responsabilità lasciandogli solo la scelta tra l'ammissione di colpa o la disperata fuga. 
Il caso è risolto ma non la vita, che rimane il mestiere più complicato e la matassa più intricata da sbrogliare, poiché non risponde sempre alla logica deduttiva e non ha una dinamica lineare e non ha neppure una meta, come i pensieri privati del commissario autentica prova di prosa poetica. 
VIGEVANO ROSSO DUCALE – i delitti di Beatrice d'Este (Parole in Movimento, 2016) va letto e riletto perchè, ad ogni volgere di pagina, si toglie un velo di bomboniera e si respira aria di poesia giungendo a un cuore di zucchero e mandorle, tanto gustoso quanto sottovalutato e troppo celato.


© 2017 Testo di Claudio Montini

© 2017 Foto di Orazio Nullo

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